Così andai a Parigi per incontrarlo, mi diede appuntamento nel suo appartamento in rue de Bellechasse, dove viveva in affitto dagli anni Sessanta con Christoph. Era una casa piccolissima, e c’erano macchine da cucire ovunque, in cucina, in bagno, dappertutto! Lui e Christoph dormivano su un divano letto. Azzedine voleva prendermi le misure per un vestito couture, che naturalmente ho ancora, e ricordo che mentre lavorava su di me ci mettemmo entrambi a ridere. È stato l’inizio della nostra amicizia». «A quel tempo Azzedine faceva solo couture. Ricordo che Thierry Mugler passava sempre in bicicletta, erano buoni amici. Poi lo invitai a Portofino. Arrivò con Arthur Elgort, che aveva realizzato le foto per Vogue Italia. C’era anche mia figlia Sara. Doveva essere il 1981».
Sul suo metodo
«Aveva in mente un’immagine di donna molto forte, una silhouette precisa, inconfondibile. Era un vero architetto, il suo lavoro era paragonabile a una scultura. E faceva tutto da solo! Ogni ricamo, ogni manica, tutto, proprio tutto veniva realizzato a mano, fisicamente, da Azzedine. Aveva l’ossessione della completezza. E questa era la sua forma d’arte, il suo modo di esprimersi attraverso gli abiti. Che in effetti parlano da soli, perché sono veri capolavori. La cosa sorprendente è che non disegnava mai i suoi modelli, li costruiva sul corpo, sempre. Esistono pochissimi disegni di Azzedine, e sono per la maggior parte degli schizzi. Gli veniva un’idea e poi la ricreava su un corpo. Passava ore e ore, giorni e notti intere a creare i suoi modelli, e non erano mai abbastanza belli! Mai, mai abbastanza. In realtà ad Azzedine piaceva il processo di costruzione, si vedeva che si divertiva. Nel suo studio c’era questa enorme televisione sempre sintonizzata sui documentari di animali, che lui amava molto, trasmessi dal canale di “National Geographic”. Ci provavamo i vestiti mentre guardavamo i serpenti e le pantere in tv. Ed era un bel modo di lavorare: Azzedine lavorava sui suoi modelli con spilli, righelli, ago e filo, a volte fino alle quattro del mattino. Non eravamo mai soli, c’era sempre gente a casa che chiacchierava, beveva, e guardava gli animali. Azzedine rimaneva assorto nella sua occupazione, ascoltando solo a metà la conversazione intorno a lui, sempre concentrato sulla sua personale voce interiore». «Non credo ci sia mai stato nessuno come lui, ad eccezione forse di Balenciaga, che cuciva i suoi modelli da solo. Per questo Azzedine era fiero di dire: sono un couturier. E lo era davvero, nel senso letterale della parola».
Sulle sue donne
«Jean-Louis Froment, ex direttore del CAPC de Bordeaux (che realizzò la prima retrospettiva su di lui, nel 1984, ndr), diceva che Azzedine, fin dai tempi in cui viveva in Tunisia, aveva un sogno, una visione delle donne francesi: bellissime, e molto forti. In seguito studiò scultura all’École des Beaux-Arts, e questa sua visione si strutturò ulteriormente. Aveva raggiunto un punto di vista estremamente chiaro, forte. Che fu ben esplicitato durante l’esposizione dei suoi lavori alla Galleria Borghese nel 2015 – una mostra perfetta, perfetta! Azzedine era davvero al settimo cielo. Poter esporre i suoi bambini, i suoi abiti accanto a Bernini e Canova… ne era così orgoglioso!». «Le sue donne? Naomi Campbell, Stephanie Seymour, Tatiana Patitz lo amavano e lo amano ancora oggi, lo chiamavano “papà” perché le rendeva belle. Ed erano felici con lui. Tra loro c’era un amore sincero, e Azzedine è sempre stato molto generoso nell’amare».
Sulla sua seconda vita, la Fondazione
«Dedico molto tempo alla futura Fondation Alaïa perché mi sembra il modo migliore per mantenere in vita Azzedine. Abbiamo cominciato a parlarne nel 2007. Pensavamo al domani. Azzedine diceva sempre: bisogna lasciare un segno nella vita mentre la si attraversa; non siamo immortali. Era una questione molto importante per lui quella del lascito, dell’eredità culturale da mantenere viva con un museo aperto al pubblico, in modo che le future generazioni potessero avere accesso ai suoi lavori. Perché la sua opera va ben oltre quella dello stilista. Lo ripeteva spesso: sono un couturier. Non un designer, non uno stilista. Sono un couturier. Aveva le idee molto chiare su ciò che voleva. “Il nostro museo sarà così”, diceva. E poi spiegava che avrebbe voluto una mostra su Paul Poiret e Martin Margiela. Io ribattevo che era l’unico a cogliere le somiglianze tra i due, ma un giorno questa mostra la dovremo fare, perché era ciò che desiderava».
Sulle sue curiosità
«La scrivania di Azzedine era continuamente occupata dalle novità che stava provando. Gli piaceva sperimentare, e questo faceva parte del suo desiderio di conoscere, perché era molto curioso. Al momento il suo studio, il luogo dove lavorava, è stato chiuso, ma prima o poi entrerà a far parte della collezione del Museo, e tutti potranno vedere l’enorme caos di Azzedine. Penso sia bello conservare questo ricordo inalterato, anche perché è molto difficile spiegare una cosa a parole, mentre vedere con i propri occhi lo spazio pieno di modelli mai finiti credo sia il modo migliore per poter comprendere a fondo Azzedine. Abbiamo lasciato l’ultimo vestito a cui stava lavorando esattamente com’era, così tutti potranno vederlo: è un abito in velluto che stava preparando per una mostra organizzata dal Design Museum di Londra, e che inizierà il prossimo 10 maggio (“Azzedine Alaïa: The Couturier”, ndr). Ci saranno i suoi vestiti e i lavori di altri designer e artisti che ammirava, ai quali aveva chiesto di creare qualcosa per l’occasione. La mostra sarà curata da Mark Wilson, che ha seguito alcune delle mostre di Azzedine già dal 1997».
Sull’ambizione
«Diceva sempre: ho appena iniziato. Oppure: sento di non aver ancora raggiunto il punto in cui dovrei essere oggi. E ancora: mi sento un debuttante. Sì, dopo 60 anni si credeva ancora un debuttante! Ciò che già aveva realizzato non gli bastava. Azzedine era molto ambizioso. Era anche… non mi piace la parola umile, ma era senz’altro modesto. Non gli piaceva inseguire il successo, aspettava che venisse da lui, come un ospite a pranzo. Ha rifiutato moltissimi premi, non solo la Legion d’Onore. Diceva che il più grande onore era stata la cittadinanza che la Francia gli aveva riconosciuto. Soltanto all’inizio della sua carriera fece una grande eccezione, nel 1985, quando era davvero quasi un debuttante. Il Ministro della cultura francese aveva costituito il premio “Gli Oscar della Moda”. L’evento si svolgeva all’Opéra di Parigi e c’erano tutti, Hubert de Givenchy con Audrey Hepburn, Yves Saint-Laurent, Madame Grès, Rei Kawabuko e le modelle più famose. Ricordo ancora cosa indossavo, anche perché Azzedine ha conservato il mio abito di quella sera in una scatola: era grigio e argento, di chiffon. Azzedine, insieme a Grace Jones in un vestito rosa, salì sul palco: vinse un Oscar come creatore dell’anno. Ricordo che ero seduta vicino a Grace Coddington e che tutto il pubblico impazzì durante la premiazione. Poi ricevette un secondo Oscar, un premio speciale, insieme a Sonia Rykiel. Wow! Il piccolo Azzedine aveva ricevuto due Oscar nella stessa sera, di fronte a tutte quelle persone: fu incredibile».
Sulla sua incredibile collezione
«Olivier Saillard, storico ex direttore del Musée de la Mode de la Ville de Paris, mi ha raccontato che, quando Azzedine è morto, moltissime case d’aste l’hanno contattato: “Era il migliore collezionista, con un gusto eccellente, e comprava sempre i pezzi più significativi”. Vionnet, Madame Grès, tutti i grandi maestri: la sua era una delle più importanti raccolte di Francia e forse del mondo, anche perché cominciò a collezionare già nel 1968. Un aneddoto: quando Balenciaga chiuse, un’amica che lavorava per lui ed ex petit main proprio di Balenciaga, gli disse: “Andiamo! Puoi comprare a poco i vestiti, tagliarli e usare i tessuti per i tuoi abiti”. Lui vide quelle meraviglie e le portò a casa con sé. Come si sa, Azzedine aveva imparato a tagliare i vestiti da solo, non aveva mai avuto un insegnante. Ma imparò molto osservando la perfezione dei grandi maestri. E nella futura Fondazione, oltre a sessant’anni di lavori di Azzedine, sarà riunita questa incredibile collezione».
Sull’amico
«Mi rendo conto solo ora che in quasi tutte le fotografie che ho con Azzedine ci stiamo abbracciando. Era bellissimo: ogni volta che andavo a Parigi mi diceva: oh sister, sei arrivata! Oppure mi telefonava la mattina e diceva: vieni, dai, vieni… sei già arrivata? Cosa vuoi per pranzo? E per cena? Poi usciva a fare la spesa. È venuto a Milano qualche volta. Ma non gli piaceva lasciare casa sua. Siamo stati un paio di volta insieme a Venezia, solo noi due. E siamo tornati a Portofino, e a New York. Ricordi ce ne sono tanti: una volta dovevamo entrambi perdere qualche chilo e così abbiamo prenotato in una clinica austriaca specializzata in dimagrimento. Era tutto pronto: avevamo i biglietti, eravamo già all’aeroporto. A un certo punto gli dissi: Azzedine, sarà molto dura, lo sai? Lui mi guardò e rispose: secondo te dobbiamo proprio andarci? Beh, dissi io, siamo qui, e abbiamo già pagato! Tu cosa ne pensi? E lui: se andassimo a Venezia? Così abbiamo cambiato i biglietti. Appena arrivati, abbiamo lasciati i bagagli e siamo corsi in terrazza a brindare con un Bellini, e poi abbiamo passato tre giorni a mangiare e a bere. A Parigi intanto tutti ci pensavano nella clinica austriaca e chiamavano di continuo per chiedere: com’è, è dura? E mentre noi mangiavamo un piatto di pasta rispondevamo: ah sì, è durissima! Era il 2009, ed è stato davvero un viaggio straordinario». «Azzedine è stata una delle persone più generose che abbia mai conosciuto. Era anche una delle più esigenti, perché dava così tanto di sé: l’amicizia e un cuore davvero fiducioso. Se in qualche modo veniva ferito, se capiva che qualcuno non era stato del tutto onesto o generoso quanto lo era lui diventava matto. Non chiedeva mai di avere qualcosa indietro, ma non sopportava che qualcuno gli mancasse di rispetto, almeno nella sua opinione. Credo sia stata la persona più onesta che io abbia mai incontrato. Quasi come un bambino. Sapete come sono i bambini, completamente fiduciosi, senza limiti? Si danno con tutto il cuore, ti abbracciano e non chiedono nulla in cambio. Ma se fai loro del male si rompe qualcosa. E Azzedine era un po’ così. Non aveva limiti, e ha costruito una famiglia con tutti noi amici. E questa famiglia c’è ancora. È uno strano sentimento: prima pensavamo di appartenere ad Azzedine. Poi abbiamo capito che ciò che Azzedine aveva formato in quella sua cucina era una famiglia». «Adesso ci sentiamo molto più di quando Azzedine era ancora con noi, il che è strano. Persone che non frequentavo, che non avevo mai invitato a cena, ora mi telefonano spesso, e io anche. Di solito quando qualcuno muore le persone tendono a perdersi. Ma non con Azzedine. Ed è una delle molte cose che lo rendono un’anima così speciale».
Vogue Italia, marzo 2018, n.811, pag.140
Fonte: Vogue.it